Due bei Castelli avvolti di mistero, privati della loro storia!
Scorcio di Castel Cardinale Feritoie del Castello di Cordigliano
Castello ancora attivo nel XIII secolo, ormai diruto, forse costruzione Longobarda a base rettangolare o poligonale, non ne resta che l’ala est e parte della torre circolare.
Situato sulla Riva sinistra del Torrente Leia, controllava un ampio territorio. La vasta pianura verso Viterbo (Surrina), la Valle del Torrente, la pianura verso Tuscania, ed una via di comunicazione che univa Viterbo a Tuscania, che superava, nei suoi pressi, il corso d’acqua per mezzo di un ponticello travolto e danneggiato dalle piene.
Apparteneva al libero Comune di Tuscania che, di roccaforti sparse nel vasto circondario, ne possedeva ben 50. Il pianoro tufaceo ove è situato, elevato ed a base circolare, un tempo doveva essere unito alla retrostante costa. Forse un imponente opera di scavo etrusca, per realizzare un fossato difensivo, lo ha definitamente isolato dal resto collinare. Così il complesso fu reso inattaccabile, qualsiasi fosse la direzione d’assalto. Esistono elementi comparativi da far ritenere che il territorio, dal VII a.C. al II d.C., doveva appartenere alla prossima “lucumonia” di Musarna.
Sotto il Castello restano inequivocabili segni di un’acropoli etrusca, così, come la parte retrostante della rupe, di tre ettari circa, mostra antichi interventi di scavo. Chiari segni di una classica urbanizzazione di un abitato etrusco.
Tutto il piccolo pianoro, fin dalle pendici, poi è un susseguirsi di grotte, grotticelle, tombe ed altro.
Sono emergenze “Rasenna” riconducibili al periodo compreso tra il VI ed il IV secolo a.C., di chiara influenza Tarquiniese. In rilievo il solito colombario realizzato entro una tomba del IV secolo, un paio di tombe la cui volta è sorretta da una colonna realizzata in negativo dal banco tufaceo. Ma su tutto spicca un’opera del tutto particolare. Un ambiente inaccessibile dal portale di ingresso, per una recente frana, osservato solo grazie ad un congegno periscopiale. La sua caratteristica è quella di presentare un ingresso, “dromos”, sulle cui pareti laterali sono stati realizzati dei ripiani sovrapposti. Detto corridoio si affaccia su una stanza circolare, il cui piano è di c.a. 50 cm più basso del vano di accesso, mentre la sua volta, a cupola, presenta cerchi concentrici che vanno restringensosi fino a chiudersi e raggiungere il piano di calpestio del castello soprastante, con il quale comunica attraverso un’apertura rettangolare
Accesso all’opera e relativo dromos. Visibili le rocce franate fuori del portale ed i ripiani laterali.
Volta realizzata a circoli concentrici.
Chiari segni di combustione sulla volta.
Particolare dell’apertura a forma rettangolare.
Che detta opera sia stata utilizzata dagli abitanti del Castello, quale “passaggio segreto” durante gli assedi, è quasi indubbio. La parte alta comunica, attraverso un’apertura, con il piano di calpestio interno del Castello, mentre la porta di uscita intercetta un sentiero tra le rocce ove in alcuni punti sono presenti gradini realizzati sul banco di tufo, protetti da una spalletta, proprio adatti per una pronta evacuazione e fuga verso la valle del Leia. L’apertura entro il piano base del Castello presenta scalpellinature a spina di pesce, che riconducono alle pareti del dromos della tomba degli Alethnas di Musarna. Ciò denota chiari segni identificativi, proprii di artigiani etruschi; nel suo insieme si può asserire che questo complesso, non risulta rimaneggiato nel tempo.
Di che cosa si poteva trattare, quindi? Era il tempio dell’Apollo nero (o Aplu Suri!), ove i morti venivano avviati alla cremazione? Le ceneri venivano poi riposte entro urne sui ripiani del dromos di accesso, in attesa della consegna alle famiglie dei defunti. L’apertura in alto della camera di combustione poteva benissimo fungere da canna fumaria. Ciò potrebbe giustificare la traccia di fuoco impressa sulle pareti.
L’Apollo Nero, od “Aplu Suri” o “Sorano”, diverso dall’Apollo Oracolare, era una divinità infernale etrusca dell’oltretomba, anche presente nel panteon di Sabini e Falisci, quindi propria dell’Italia centrale. Sua paredra era la dea Cavatha. La coppia rappresentava quello che Ade e Persefone potevano significare per greci e romani.
Apollo Sorano, detto il “Nero”, apparteneva agli dei degli inferi, funesti e vendicatori, almeno in questa parte di Etruria, altrove presiedeva i santuari oracolari come l’Apollo greco in Delfi. La nostra malefica divinità nei discorsi della gente non veniva mai nominata con il suo nome direttamente, ma solo con epiteti, cenni o sguardi, diversamente la sua evocazione avrebbe potuto attrarre troppo la sua attenzione con conseguenze poco piacevoli.
Divinità terribile, quindi, questo “Aplu Suri” o “Soranus”, cui, al suo alter ego oracolare, diamo appuntamento sul Monte Soratte. In tutta l’Etruria il nostro “Aplu” raggiunse livelli di divinizzazione tali, in certi casi, superiori allo stesso Tinia (Giove). Si pensi a Sorano (paese del tufo), a “Surrina”, sul Colle ove fu edificato il Duomo di Viterbo e nell’area di Pyrgi dove recentemente è venuto in luce un tempio a lui dedicato!
Del luogo etrusco soggiacente il castello non conosciamo il nome, mentre il maniero venne detto di Cordigliano. Nel medioevo, può aver preso tale nome dalla “Cordigliera di tufo” presente su tutta la costa lungo il Leia, o forse dal cordiglio con il quale i frati, che potevano averlo abitato, cingevano il loro saio.
Eloquente più dello scritto, qualsiasi ne sia “l’angolatura” di ripresa, è la proiezione della sua serena immagine, riflessa dai suoi bruno-rosati tufi, dall’elevata torre e dalle finestre aperte sul vuoto. Profonda impressione suscita la prima vista, non appena si scende la Valle Segagna.
Il castello sorge su un pendio collinare “agrodolce”, affiancato da imponenti pini che incredibilmente associano il loro bel verde alle tinte cirostanti. Ma ciò che colpisce lo sguardo è la perfetta rasatura dei prati circostanti, perennemente in ordine, quasi fosse continuamente in servizio una squadra di giardinieri.
Per la verità, questo angolo di Tuscia, di prati a distesa ordinati ne vanta molti. Non ci si mette poi tanto a capirne il perché. Basta guardarsi intorno o tendere l’orecchio per porsi all’ascolto di una intonata melodia di sottofondo: un dolce muggito di una bella mandria di mucche dalla tinta “rosso-bruno”.
Tra queste ce n’è una in particolare in testa a tutte! E’ la nonna del branco, che le accompagna e guida al pascolo tra i prati ed incredibilmente¬, intorno alle 12, le porta verso un lontano punto di fienagione.
Obbligate a vivere in perfetta armonia entro una società matriarcale, le bestie, per convenienza, hanno anche perduto il piacere e diritto all’accoppiamento non essendo presente tra loro alcun toro. Sarà il bovaro, giunto il momento propizio, ad operare l’inseminazione artificiale. E così quella vita animale prospera, si protrae e conserva senza che nessuno si ponga alcuno scrupolo esistenziale e di coscienza ...
Il basso della forra, a guisa di cassa armonica, amplifica in cielo i versi animali, così quelle mucche ripagano la natura benevola con il loro canto. Sono loro, con il continuo brucare e stabbiare, a mantenere bello ed ordinato questo verde eden.
Un po’ meno fortunate, una cinquantina di “cugine” chianine, poste sulla sinistra del castello, chiuse entro un recinto, obbligate a vivere in un più ristretto spazio. All’ora del pranzo giunge una “betoniera” con un carico di frutta e verdura di scarto, macinato, che loro accolgono con gioia. Il mezzo deposita dalla strada, con la lunga proboscide, entro la mangiatoia, un indefinibile pastone. Colpisce immediatamente il pungente odore di alcool che emana quel pasto, frutto della fermentazione vegetale. Con incredibile avidità le bestie si accalcano e scornano per conquistare i primi posti e non contendersi bocconi di pietanza! Sembra quasi impossibile che questi animali riescano a trasformare quel nauseabondo “pappone” in latte dal sapore delicato o rendano squisita carne da “macello”.
Del nome del Castello possiamo dire che ben due Cardinali possono attribuirsi l’onore, inconsapevole, di avergli dato il nome. Il Parnens, Rettore del Patrimonio di San Pietro, che potrebbe averlo abitato nel 1265 e l’Albornoz, che nel secolo successivo, su incarico “papale”, si interessò a certe vicende tuscanesi. Mentre l’uno era un religioso con funzioni “amministrative”, l’altro era un Cardinale guerriero e politico.
Ma di certo il maniero, fu utilizzato quale saltuaria dimora, intorno al 1400 da quell’Angelo Broglio da Lavello, detto il Tartaglia, Conte di Toscanella, che ne divenne “proprietario”. Buon Cavaliere di Ventura, forte soldato privo di scrupoli, si infeudò con la forza e l’arroganza buona parte del territorio dell’Etruria Meridionale. Si vendeva ora all’uno ora all’altro regnante, nella soluzione dei conflitti territoriali che venivano a crearsi tra ducati, minuscoli stati e piccoli regni del territorio italiano, riuscendo poi ad ottenere notevoli favori personali.
Col tempo, il Tartaglia, si fece molti nemici finendo i suoi giorni in Aversa, decapitato. Correva allora l’anno 1421, e Muzio Attendolo Sforza, suo amico, anch’esso cavaliere di ventura, rivale e consuocero, mise in atto quella pena di morte su incarico del Papa di allora!
Il castello, prima della fine del XV secolo, risulta diruto ed abbandonato quasi che, proprietà e proprietario, fossero travolti da un insolito contemporaneo destino.
Basta un semplice sguardo, per rendersi conto che il maniero non fosse affatto costruito con presupposti di difesa-offesa di un luogo. Forse edificato per altri scopi, casino di caccia, luogo di residenza estiva o per conviviali.
A quel tempo Tuscania al centro di un vastissimo territorio, regnava florida, ne restano ancora apprezzate vestigia visibili da lontano. Le Mura, la Basilica di S.Pietro, Basilica di S.Maria Maggiore, Castello del Rivellino, Torre di Lavello etc.!
Tutt’intorno il Castello è una caterva di significativi toponimi, a rammentare l’alternarsi del dominio delle signorie con lo Stato Vaticano Chiesa: Castel Cardinale, di Cordigliano, Via del Conte, Macchia del Conte, Strada Chirichea, Castelli di Respampani, Castel di Salce. Soltanto della piccola Frazione c.d. “Gnignera”, a fianco della Strada Chirichea, poco più avanti del nostro luogo, non si trova un riferimento che possa ricondurre a quella denominazione.
Senza dubbio madre di tutte le notevoli emergenze archeologiche del vasto circondario, antiche e moderne, venne messa in luce soltanto di recente. Dopo quasi 2400 anni di eloquenti silenzi, Musarna è riuscita a raccontare, seppur parzialmente, la sua storia! Ma già in passato, i residenti, ne dovevano conoscere l’esistenza. Il Centro, però, non era mai stato “scavato” sistematicamente perché, di siti etruschi, relativamente inviolati e di quelle dimensioni, l’Etruria ne vanta a bizzeffe.
Dipendente dalla prossima lucumonia di Tarquinia, sembra che nel 5° secolo a.C., quando gli etruschi, pur avendo vinto la battaglia del mare Sardonio (Alalia-Corsica), contro i greci euboici, persero parte del controllo dei commerci del Mediterraneo, riuscisse la nostra Musarna ad assicurare alla città egemone ancora agi e ricchezze grazie alle sue risorse agricole, ricavate dalle estese e fertili pianure circostanti!
Sembra addirittura che la romanizzazione del territorio etrusco schivò fortunatamente Musarna. Il motivo sfugge! Forse trascurata perché fuori dalle principali vie di comunicazione oppure alleata di Roma.
Ciò è stato dedotto dagli archeologi in base agli scavi del sito ed ai reperti “venuti” in luce, mentre la sua denominazione, sembra che lo debba alla radice “Mu” seguita dall’epiteto di Apollo “Suri” ovvero da “Musuri” a Musarna.
I primi scavi del centro risalgono alla fine del 1800, poi ripresi tra il 1980 ed il 2000. Purtroppo parte di ciò che è stato portato in luce dalla ricca tomba degli Alethnas (40 sarcofagi e relative stipi votive), è finito all’estero nel patrimonio di nazioni che nulla hanno a che vedere con la nobile civiltà etrusca! Ciò è incomprensibile e ci si domanda a quale titolo possa essere avvenuto ciò, eppure le nostre Soprintendenze sono state sempre attente alla tutela dei nostri reperti archeologici! Specie tenendo conto, secondo la pił recente letteratura in argomento, che tali reperti sono finiti nel dimenticatoio di qualche magazzino o in perimento, alle intemperie in qualche giardino universitario.
Per visitare queste contrade oggi è comunque consigliabile farsi accompagnare da un “cane” archeologo, con fiuto a distanza. Musarna, una volta portati alla luce gli elementi più interessanti, è stata risotterrata. Restano visibili soltanto un paio di cose, tra cui una “therma” pubblica, privata (gioco di parole!) del pavimento musivo (forse conservato presso il Museo di Viterbo).
L’area necropolare è vasta ed è posizionata fuori del perimetro del centro. In particolare risulta difficile imbattersi nella notevole e principesca tomba degli Alethnas, priva di segnalazione.
Alcuni Gruppi di persone giunti in visita, sono andati in “bianco”, senza riuscire a trovare l’area necropolare.
In compenso, fuori delle sacre “mura” è ancora visibile, un aborto di discarica “indifferenziata”, a cielo aperto che, malgrado il passare degli anni dal blocco dei lavori, continua a rendere diossina e prodotti del suo centenario inquinamento.
Vanì, 1°/03/2015